“Non preoccuparti, amore mio. Non preoccuparti.”
Oggi nasceva il grande scrittore Ernest Hemingway, Premio Nobel per la letteratura nel 1954 dopo la pubblicazione de Il Vecchio e il mare. Scrittore la cui vitalità si rifletteva nella vita, giornalista e corrispondente di guerra ferito gravemente durante la Grande Guerra sul fronte italiano, il suo stile conciso ed essenziale, il suo equilibrio nell’adopero di parole significanti per una narrazione avulsa a ogni forma di retorica, gli permisero di portare alla luce grandi capolavori quali Fiesta e Per chi suona la Campana.
Perché Capolavori?
Per il sapore di autenticità che intesseva nei suoi dialoghi e nei suoi mondi.
Di che cosa parlano?
In sostanza di vita e morte. Guerra, sangue, coraggio: un vitalismo indomito da bruciare a costo di morire; una vita che è degna di definirsi tale se non teme la sua fine; il machismo quale intima volontà di potenza, quale mezzo per infrangere le barriere di comunicazione con le donne e giungere all’amore; l’amore tragico e potente di Addio alle Armi, amore vero e struggente fra un ferito in battaglia durante la Prima Guerra Mondiale (Hemingway stesso?) e un’infermiera del fronte.
Hemingway si suicidò nel 1962 sparandosi in volto col suo fucile da caccia. La maledizione degli Hemingway, pompano di solito i media (altri suicidi accaddero poi in famiglia) dovuta forse alla fine della vita, del vitalismo. Hemingway era avvolto dal male oscuro, nemico infido e terribile, e non riuscì a uscirne. Non scriveva. Beveva. Non poteva godere dei suoi frutti seminati durante una carriera straordinaria: doveva andare avanti, oltre, ma non ci riusciva.
Ogni sua pagina (anche i primissimi racconti, romantici e provenienti dall’ambiente maledetto e malinconico della Generazione Perduta, durante le sue prime fatiche sotto l’ala protettrice di Gertrude Stein) è un momento in cui la vita si infiamma, illumina la notte. E infine si spegne.