La poesia è finita. Diamoci pace.

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La poesia è finita. Diamoci pace.

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Il libro di Cesare
Viviani edito da il melangolo inizia con una constatazione
lapidaria: La Poesia è finita. Per arrivare a tal
conclusione, spiega fra le pagine che il mondo non è più pronto
alla poesia. In fondo si confonde la poesia autentica con la
scrittura in versi; e in effetti, constatando gli ultimi fenomeni
editoriali e le ultime vendite, vediamo paradossalmente un picco
eccezionale di presunti poeti che vendono molto più dei vecchi
maestri (che – accusa Viviani – i giovani non hanno mai letto): Gio
Evan, Francesco Sole, Guido Catalano: piccoli grandi campioni di
scrittura in versi. Sono esempi personali, mai citati dall’autore.

Ma anzitutto: che cos’è
la poesia? Come la distingue dallo scrivere in versi? Con un giudizio
severo e radicale: l’essenza della poesia sta in quella vertigine
che si prova di fronte a un abisso (cit. a pag.14) .
E
questo la dice lunga.

In
breve, per prima cosa la poesia è indefinibile. La domanda stessa
che ci poniamo riguardo alla sua natura e forma è viziata
dall’insufficienza di senso con cui proviamo ad oggettivarla.

Possiamo
viverla, leggerla (anzitutto, e tanta) e infine provare a scriverla;
ma attenzione: la poesia non accetta compromessi, né slanci
autobiografici; non cerca completezza. Avvicina piano all’abisso
dell’esistenza e al non senso delle cose – si avvicina al
nulla.
Alla nostra incapacità di descrivere ciò che in coscienza
avvertiamo: il mondo e la vita. La spiegazione risolutiva
dell’abisso (che a sua volta ci scruta, come disse Nietzsche)
allontana la poesia da se stessa, giacché quel nulla che sfiora,
quell’adesso incommensurabile e indecifrabile, è più grande di noi
ed esula dalle nostre capacità di definizione.

Il
nulla fa paura, ma spesse procede dalla meraviglia, a sua volta
scaturita dal vissuto delle cose, grandi o infime. Diceva Holderlin:

All’alto anelò il mio
spirito, ma l’amore

lo riportò indietro;
più potente lo curva il dolore;

così percorro l’arco

della vita e torno di
dove venni.

(da
Poesie scelte, UE Feltrinelli 2010, a cura di Susanna Mati)

…dove
lo spirito non è impropriamente scritto (oggi, insieme con anima
e amore è abusato) perché è l’uomo nel suo tutto che, pur
esaltato da un amore che niente ferma, si curva a causa del dolore che
riporta alla vita, al giorno, alla realtà. Pochi versi che
confessano un’esistenza.

Il
paragone è assolutamente improprio, ma oggi abbiamo questo:

ogni volta che

dici a tua figlia

che la sgridi

per amore

le insegni a confondere

la rabbia con la bontà

e la cosa sembra una
buona idea

finché lei non cresce
e

si affida a uomini che
le fanno del male

perché somigliano
tantissimo

a te

(da
Milk and Honey, Tre60)

Psicologia
in versi? La donna che ama uomini che le ricordano il padre? Chi lo
sa. Rupi Kaur, giovane artista poliedrica e poetessa (?) è un
caso internazionale. Con Milk and Honey ha venduto milioni di
copie del suo libro. Le recensioni, da Huffington Post a New York
Times
fino a Repubblica, sono entusiaste: Rupi Kaur è una
promessa vincente, è il futuro, è perfino una voce in versi del
femminismo. Ma anche qui, secondo Viviani, non ci siamo:

La perversione del
critico è quel senso di onnipotenza che gli permette di dire
l’esatto contrario di ciò che è evidente: il poeta preso in esame
manca completamente di talento e di ispirazione (così almeno appare
ai più) e allora lui scrive che è ricco di talento e di
ispirazione. E dove chiaramente il poeta si blocca, fallisce, sbatte
nell’ostacolo e non c’è alcun segno di poesia, il critico dice che
ha superato brillantemente l’ostacolo.
(pag
40)

Ma
chi sono “i più”? I lettori di oggi? Fra di essi, quanto hanno letto
per distinguere da una poesia o una scrittura in versi, così come da
una canzone pop a una musica profonda e ardita? Che preparazione
hanno e, soprattutto, c’è bisogno di una qualche preparazione? O è
necessario un lettore per comprare, per consumare versi
poetici? Incontrano e leggono e apprendono quel senso di vertigine a
cui conduce la poesia? Vogliono questa vertigine o è
troppo impegnativa, troppo minacciosa? Chi vuol farsi guardare
dall’abisso? Chi crede nella percezione dei propri limiti, intesi
come minacciosi impedimenti alla libertà (del piacere)?

Non è
tutto chiaro. Per niente. Ciò che non è chiaro è perfino in noi,
un mistero. La poesia ce lo rivela: il mistero in noi. U n vuoto, un
incomprensibile.

La
poesia è finita. Diamoci pace.

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