UN VIAGGIO POETICO ATTRAVERSO UN CORPO DA RICONOSCERE E AMARE
L’esordio di Giovanna
Cristina Vivinetto con Dolore minimomi aveva profondamente
colpito, tanto da ritenere un peccato il clamore e la risonanza
mediatica che intorno al libro sembrava quasi soverchiare ciò che al
contrario quelle pagine riuscivano a rivelarci: una sorprendente
ricchezza di intuiti e maturità stilistica, la bontà dell’idea
(necessaria) di fondo e la qualità finale della silloge; la verità
di un dolore e di una transizione (sessuale e non solo) motivata da
una forza di vivere che vi trapelava.
Con il suo nuovo libro,
Dove non siamo stati (Rizzoli) la poesia si è posta – come
essa soltanto può permettersi – quale strumento eccezionale per un
confronto con se stessi, una narrazione di sé, delle proprie ferite
e del rischio che un amore così introiettato e al contempo
intrappolato in un corpo misconosciuto non esplodesse né si
testimoniasse nella sua integrale bellezza.
In effetti (e si direbbe
a conti fatti) la poesia racconta di un’integrità di sé, un
riconoscersi pienamente; il verso poetico legge un processo di
autocoscienza che si distacca da ogni pensiero e
sensazione per toccare una piccola luce, una piccola istanza
assoluta: l’intimità della poesia di Vivinetto posta come
riflessione comune sulla vita.
La poetessa, fra ricordo
e racconto, emerge dopo uno strappo e da un’apparente negazione di un
sé precostituito. Vivinetto vi prende spunto per toccare definitivamente un punto essenziale per ogni persona: quella di amarsi.
Ma una volta avvenuto lo
strappo, come riconoscersi? L’assenza di quel che si era – o si
credeva di essere – emerge quasi ingombrante ma decisiva per
un’auto-affermazione. E immaginarsi dove essere stati (e il primo
luogo è il proprio corpo) è la cifra per misurare e vivere la nuova
realtà:
Perché tornare
indietro era impossibile
provammo a fare come
se nulla
fosse mai accaduto.
Sulla tavola
le posate venivano
sistemate come allora,
i gesti apparentemente
disinvolti
in larghi movimenti di
braccia,
gli abiti ordinati per
stagione
affinché non
tradissero l’immutare
del tempo – le porte
aperte ad abbattere
confini. Noi due
distanze più vicine
nel dramma della
perdita imparammo
l’arte di simulare la
normalità:
seguire riti che
tramortissero
il dolore, tabelle di
salvezza
da consultare nei
picchi del mare.
Capire persino di non
amarci
ma continuare a
fingere per non soffrire.
(pag. 12 del libro)
Una realtà entro cui
muoversi e seguire il flusso della vita che scorre dopo uno strappo
necessario:
Scoprimmo ben presto
la misura dello strappo
tra di noi e tra noi
le cose.
Fu come scoperchiare
un bisogno,
sbarazzarsi del
carapace angusto
a costo di lasciare
quel grumo di dolore
esposto. Indifesi alla
corrente del mondo
a chiederci: Dove,
in quale smania,
fino a che negazione vi
siete spinti?
Come se annullandoci a
vicenda
potessimo risparmiarci
anche
lo scontro ingrato con
tutto il resto.
Ora veniva a noi un
richiamo distratto
di salvezza dallo
spioncino in ottone
della casa, una lama
di luce a sedurci,
a consolarci. Di lato
c’era come un recinto
ma fuori saremmo
durati, oltre le cose.
(Pag,48)
Vivere con l’altro,
quando l’altro dimentica
Una persona si riconosce
come tale quando comunica con un suo simile e sperimenta (a partire
dalla dimensione famigliare, come in questo caso) l’alterità,
tramite cui il mondo si manifesta e si comprende con oggettivazione.
Ma forse l’altro non è più qui, è altrove, allontanato in mente e
spirito da una malattia degenerativa come l’Alzheimer.
Valicabili sono tutte
le cose.
Da qui a lì c’è solo
il passo leggero
che si compie tra le
grate assolate
della finestra. Ma i
corpi questo
non sanno dirlo e
restano con l’ansia
della vita tutta
chiusa dentro,
fissata al lenzuolo,
al materasso intriso
di quel che resta
quando ci si spegne.
A occhi chiusi hai
valicato
il muretto basso che
ci divide.
Senza fatica eri già
dall’altra parte
come quando a sette
anni scavalcavi
la ringhiera smangiata
dal sale
alla fonte Aretusa e
agile planavi
sugli scogli. Ridevi
per ore nel mare.
(pag. 78)
Nella seconda parte del
libro (Il paniere sul balcone) si concentrano le maggiori poesie di amore e amarezza, per un
inevitabile addio, e la consapevolezza di un rapporto e di una
comprensione con l’altro che finisce, benché ci assomigli per sottrazione, come si evince dall’ultima parte che porta il titolo della silloge.
Giovanna Cristina
Vivinetto trova in questo suo secondo libro l’affermazione di un
talento poetico maturo e forte. Con la sua penna la poesia si fa
racconto e testimonia l’autenticità, la passione e il dolore di una
vita che va sempre degnamente vissuta per quella che è. Un viaggio esistenziale da affrontare verso per
verso.
Dove non siamo stati
di Giovanna Cristina
Vivinetto
BUR contemporanea
(Rizzoli)
Pag. 144, € 13