“Soffocare insieme”.
L’ultima silloge del poeta Francesco Cagnetta, Il mare beve me stesso, ed. Arcipelago Itaca, 2021 – mette in evidenza una delle emozioni più represse e inespresse (a eccezione dell’ambito letterario) dei nostri tempi, quello del dolore, un sentimento apparentemente intraducibile che si tende a rifuggere, preferendo una forzata dimostrazione di benessere in un’epoca di apparenze. La poesia di Francesco Cagnetta ci conduce a un avvicinamento più ‘umano’ della vita, alla concretezza dei legami affettivi e alla loro, talvolta, ineluttabile autodistruzione.
Grammatica del dolore
Il titolo propone immediatamente un’idea di subissamento, di grande sopraffazione e di annullamento sotto le acque di un enorme gigante: il mare che, nell’imprescindibile collegamento metaforico con il dolore, investe e sommerge, poiché il poeta stesso ne entra in contatto e, per effetto, gli avvenimenti vissuti diventano creazione espressiva. Quest’ultimo, inoltre, tende a tradurre la grammatica del suo dolore – e quello di molti altri – anche attraverso alcuni scatti fotografici, presenti nell’opera, su cui è necessario soffermarsi per afferrare compiutamente il punto di congiunzione con la sua scrittura.
Decifrazione semantica
Il poeta àncora alcune sue poesie a una breve considerazione al margine destro, quasi a voler introdurre le dinamiche psicologiche delle relazioni affettive. Invita il lettore a un’anticipazione riflessiva delle liriche. In tutta la silloge, la decifrazione semantica è immediata, a contrasto con il tema principale, carico di tensione e di pathos, il quale merita una sedimentazione e una riflessione maggiore, prolungata nel tempo.
[…]Il dolore è dentro e ci aspetta
il dolore sei tu, ogni tuo respiro[…]
Navigare
Nella prima parte della raccolta poetica si entra, con un incremento graduale e sfumato ma più netto e definito verso la fine, in una dimensione intimistica con cui il lettore familiarizza, delineando le coordinate di una ‘navigazione’ della scrittura che diventa via via sempre più feroce e sincera, quasi diaristico-confessoria.
Il mare beve me stesso
e tutte le mie colpe
per darmi in cambio
nervi scoperti
cicatrici retrovisori
un dolore che galleggia
e io che non so salvarmi
Scrutarsi
Scoprire e ri-scoprirsi nella sofferenza, nella parte più cupa del vivere, mescolandola al senso di colpa in un gioco di contrasti tra la consapevolezza e la negazione. La ricerca di una salvezza si autoalimenta di analisi e iper-scrutazioni: il poeta scandaglia anche la minima variazione della dolorosa infelicità, includendo quella di un passato riemergente che lascia vivida l’immagine nel ricordo
di un dolore che dimora in noi,
come il gatto che si appropria
del divano e di ogni nostra assenza.
Dissolvimento
Nell’intera silloge è percepibile un ‘io’ in dissolvimento e, più precisamente, una dimensione umana che si sgretola e si liquefa nel mare magnum delle assenze e delle mancanze, un liquido amniotico familiare da cui si generano gesti e omissioni:
[…]Io sono morto di solitudine
ma soprattutto ho ucciso di solitudine
per non aver sprecato il fiato
per non essermi opposto alla bufera,
al pasto familiare.
Urla
Il dramma familiare diventa maggiormente esplicito – e irrimediabilmente espulso – nella sezione “Dolore familiare”, dove il poeta cerca di spingersi oltre arrivando a far sentire “mura d’aghi / dentro pareti di urla” e in cui è tangibile il senso di affaticamento, di occlusione all’interno della filiazione. La raccolta, dunque, afferra il tema senza mai scostarsi, accompagnandosi al mutamento e al ritmo ondulatorio del ricordo, in un agganciamento continuo alla rielaborazione della realtà. Il patimento, che non è mai chiamato con un nome altro ma sempre ‘dolore’, denota una salda e robusta abilità nel chiamare le cose con il loro nome, senza mai un tentennamento, un cedimento o un’edulcorazione.
“[…]Per questo ora ti chiedo di soffocare insieme
questo dolore originario, di soffocarlo qui,
sotto il cuscino delle bombe,
nello stesso nido familiare
che ci ha scelti e poi arruolati,
addestrati fino a tanto.”
Allegoria
Nella poesia di Cagnetta, e all’interno della menzionata sezione, i versi sono collocati in una dimensione domestica demarcando la scena calcata – teatrale ed allogorica – della casa. Un corredo e un arrichimento di caratteri simbolici propri della vita familiare apportano al lettore una visione collocatoria nello spazio: letto vuoto…// piatti sgomenti…// divani sprofondati…// solchi sformati delle forchette…// spigolo opposto della tovaglia.
Squarcio
È visibile, ma a sprazzi, l’avvicinamento e il ricongiungimento con un ‘io’ bambino che aleggia sottilmente nella cronistoria del dolore – e del suo evolversi – e che si rapporta costantemente con “quello squarcio sempre aperto”:
“Se poggio il capo sul petto
sento un bimbo che piange
e un passante strillare
– affinché smetta –
ma il vagito è senza fine
non trova ragione
in un corpo così stretto[…]”
Nella parte conclusiva del libro, nell’ultima sezione denominata “Verbo chiuso”, i versi del poeta continuano a secernere memorie che rimangono tuttavia ancora soffocate in un passato apparentemente oltre-passato ma ancora protagonista del presente: “dentro era un incolto mitigare/ mani e gola le sento ancora vibrare”.