“E tremola la sera fatua.”
Pochissime scritture hanno una forza d’attrazione paragonabile a quella che sprigiona la penna martellante del poeta Dino Campana.
Leggendo i Canti Orfici, suo unico libro, si è costretti a fare un viaggio nell’anima, nelle lacrime dell’esistenza dolce e severa.
Dino Campana è un intoccabile, una patria di emozioni, un treno a mille vapori.
Nella notte trova il tempo sospeso, il corso delle immagini silenziose dai profili lunghissimi. Il ricordo diviene una consacrazione delle sue porte coraggiosamente aperte alla conquista della vita dispersa nel selvaggio infinito.
La sua fame di orizzonti purifica il dolore e nella poesia si odono melodie invisibili dopo i suoni, grazie di purezza del cuore che lasciano sprofondare negli arcani dello sconosciuto, dell’inconscio.
“Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero.”
L’AMORE, TEPORE DELLA LUCE ROSSA
“O il tuo corpo! Il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio:
e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola:
ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo.”
Alla donna Campana attribuiva un compito risanatore, che nessun essere al mondo avrebbe potuto realizzare.
E’ nelle prostitute che il poeta trova l’amore, un sodalizio esistenziale fra emarginati.
Non solo le riabilita come imponenti vessilli d’umanità esclusa, ma le innalza conferendo loro un maestoso fascino attico.
E mentre impazzava il primo conflitto mondiale Dino Campana incontrò la scrittrice Sibilla Aleramo, unico grande amore della sua vita.
Il loro fu un sodalizio folle di passione, in comune avevano l’animo tormentato.
Era un filo sottile ma fortissimo a tenerli insieme.
Lei scrisse queste stupende parole:
“Sei tu che mi squassi così?
Che cosa m’hai messo nelle vene?
E sempre negli occhi ho quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce.”
Dopo l’idillio iniziale i loro fantasmi cominciarono a ricomparire, entrambi vittime e carnefici di un passato difficilissimo.
La Aleramo smise di cercarlo, ma l’autore dei Canti Orfici non si arrese e si aggrappò alla speranza di rivedere l’amata, continuando a scriverle supplicandola di andarlo a trovare. La sua ultima lettera indirizzata all’unica donna della sua vita è datata 17 gennaio 1918 dal manicomio di San Salvi di Firenze.
LA FOLLIA, I SUOI PASSI NEL MARE
Quello di Campana è un vagare interminabile dalle montagne al mare.
Fra i lidi si pone all’ascolto delle onde, siede sugli scogli giganti o rimane disteso fra i ciottoli della spiaggia con lo sguardo rivolto alle vele e ai battelli dell’orizzonte smisurato.
Il poeta passeggia di notte come un cane randagio per il porto di Genova e ne scaturisce un ritmo poetico battente nel perpetuo andirivieni del mare, una trama martellante che ritroviamo in alcune sue liriche, come Batte Botte.
“Ne la nave
Che si scuote,
Che le navi che percuote
Di un’aurora sulla prora
Splende un occhio
Incandescente
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quais)…”
Incapace di adattarsi alla normalità per le sue stravaganze e i suoi sbalzi d’umore, Campana ha spesso a che fare con la polizia quanto con le istituzioni psichiatriche.
Il poeta ha pagato a carissimo prezzo umano la sua irregolarità, soprattutto nel definitivo internamento nel 1918.
LA PAMPA, UN BARLUME D’ILLUSIONE UNIVERSALE
Nella sua esperienza di vita sudamericana Dino Campana si sente rinascere come uomo nuovo nel cielo infinito, non più sfigurato dalla presenza malsana di Dio, emblema di dogmi arbitrari. L’uomo è sufficiente a se stesso, la sua libertà abbatte l’orbita divina e si unisce alla natura nel suo prodigio di elementi vivi.
“La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che il mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabile dolce e terribile.”
I MIEI OCCHI NITIDI PER DINO CAMPANA
Dino Campana è un genio della poesia mondiale, ancora troppo poco riconosciuto,
Lo stesso Eugenio Montale l’omaggiò con dei versi per la sua forza poetica straordinaria, la sua ispirazione vulcanica, sovraccarica, smodata.
Nei suoi deliri traboccanti alla vita, i cannoni tuonano bagliori nel mezzogiorno e rispondono alle torri di travature enormi.
Resto incantata dal suo talento visionario dinnanzi al fuoco dello specchio, alla luce sanguigna dei versi inimitabili, alle verità nascoste delle sue potenti immagini, che seppur misteriose e a volte oscure, squarciano la sensibilità di chi possiede il dono dell’accoglienza e l’umiltà fiera del sentire tra i fruscii silenziosi dell’essere.
I Canti Orfici sono una carezza per l’anima, selva antichissima di foreste vitali, un vento di passioni lontane dal sonno, che sussurrano parole mai udite, e ciò che ne rimane alla lettura è sincera commozione, brillante sconvolgimento.
“Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi
algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre
correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera”
Comment (1)
Paolo
la foto non è di Campana... è Filippo Tramonti!