“Non siamo più quel che ricordiamo.”
Ribelle fino all’ultimo
Quando morì – si dice a causa di febbri reumatiche – durante la guerra d’indipendenza greca contro l’Impero ottomano, George Gordon Byron (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824) aveva vicino a sé il suo capolavoro incompiuto, il Don Juan.
Byron aveva deciso di intrecciare il proprio destino con quello dell’associazione londinese filoellenica a sostegno della guerra d’indipendenza greca . Perché correre un simile rischio? Perché mettere la propria vita in pericolo?
Harold Bloom, uno dei maggiori critici letterari contemporanei, suggerisce una lettura delle scelte istintive del poeta, e lo fa proprio con un filtro da lettore, rifacendosi al Byron delle poesie, definendo il nostro “un poeta post-rinascimentale.” Un artista fuori dal proprio tempo, romanticamente avulso alla morale della sua epoca, ragazzo alto, prestante, campione di nuoto e boxe, donnaiolo incorreggibile.
Ma è Byron stesso a raccontarsi, in poche parole, ammettendo la propria incostanza caratteriale:
“Sono un così strano miscuglio di bene e male, che sarebbe alquanto complesso descrivermi.”
John Keats – Il nome scritto nell’acqua
Naturalmente ci resta la sua poesia e un fondo di amarezza nel ricordarci che un tale genio, come purtroppo tanti altri, ci abbia lascito troppo presto; eppure Byron sfidava la sorte, e chissà, con la sua adesione ai moti rivoluzionari in Grecia, sfidava pure la morte, che tuttavia lo prese ancora prima di combattere seriamente, nella maniera più subdola. Due suoi amici, altrettanto grandi poeti, se ne erano andati negli anni precedenti: il primo era John Keats, giovanissimo, che riparò in Italia, luogo dal clima mite, per rimediare in extremis al tifo che lo affliggeva – con la sensazione che tutto sarebbe presto finito, come fosse in lutto per se stesso. Keats attendeva che la morte lo prendesse: aveva solo ventisei anni, ma negli anni precedenti (e durante l’amore burrascoso e tormentato con Fannie Brown, anche lei poetessa) aveva prodigiosamente elaborato i suoi grandi capolavori che lo hanno reso forse il più grande (anche di Byron stesso) fra i poeti inglesi romantici. Keats fra l’altro scriveva da pochi anni e i suoi primissimi versi non avevano lo slancio commovente dei suoi lavori più incisivi: forgiato da studi classici, imparava con meticolosità il mestiere, fino a giungere a una forza lirica, a un ritmo e un’apparente semplicità comunicativa del verso che lo avrebbe immortalato per i posteri. Alla sua morte, Shelley, suo amico (che lo aveva invitato in Italia, a Pisa, per riprendersi dal male ai polmoni) scrisse al suo riguardo sull’Adonais, elegia dedicata a Keats stesso e profonda meditazione sulla morte e la sopravvivenza:
La più bella e l’ultima,
La fioritura, i cui petali si staccarono prima di esplodere
Morto sulla promessa del frutto
Svanire
Keats cercava quel frutto, consapevole del suo genio e distante dall’estro: le sue poesie presentano quella forma attenta, quel ritmo e quella musicalità eccezionali che in qualche modo lasciano libero il suo talento romantico, la sua immaginazione naturale, sempre ritornando tuttavia all’Ego, origine creativo e in costante lenta fioritura, interrotta al primo incipiente folgore che ancora ci illumina.
Dissolvermi, svanire e poi dimenticare
quello che tra le foglie tu non hai mai conosciuto:
l’ansia, la febbre, la stanchezza,
qui dove l’un l’altro ci sentiamo soffrire
dove il tremito scuote i pochi capelli grigi
la giovinezza nasce pallida e spettrale e muore,
dove pensare significa soffrire
gravi di plumbea disperazione,
e gli occhi della bellezza diventano opachi,
e l’amore non li desidera oltre domani.
Shelley al contrario incanalava nel suo verso l’ipersensibilità verso il mondo con una passione irrequieta, con l’audacia dell’immaginazione nella sua piena formula, con la sua visione di mondo, di amore libero e senza fideismi. In lui conviveva Satana, ch’egli esaltò in suo eccellente saggio (genere che gli causò, nelle sue dissertazioni sull’ateismo e il libero amore, non pochi problemi in Inghilterra), ossia l’archetipo dell’individuo libero e alla ricerca di una luce vitale ed eterna che scalda il corpo e l’anima e forgia la poesia.
Tempesta e assalto?
Esile, gracile, schivo, Shelley sembrava il contrario di Byron, atletico e avventuriero; era egli stesso la misura con cui ci si opponeva alla “Byronmania” e alle cose “Byroniane” con cui Byron, ormai famosissimo, si muoveva nel mondo (e per questo era amato forse più come personaggio che come artista). Una differenza significativa seppur minima stava nella passione per il nuoto: Byron era nuotatore provetto e gareggiava con gli amici, sempre vincendo; Shelley non sapeva nuotare.
Eppure, durante la traversata verso Livorno e in piena tempesta con la piccola nave Ariel, Shelley rifiutò – a quanto pare – i soccorsi. Pur non sapendo nuotare. Il “superbo artigiano, poeta lirico senza rivali, e sicuramente uno degli intelletti scettici più avanzati che abbiano mai scritto una poesia” (secondo Harold Bloom) si era suicidato?
Ogni nostro cuore
Il suo corpo fu ritrovato dieci giorni dopo e cremato. Al suo funerale assistette Byron. Ma il suo cuore resisté alle fiamme: fu tenuto da Liegh Hunt, il quale si rifiutò di consegnarlo alla moglie di Percy, Mary Shelley. Proprio ques’ultima, tempo prima, nella villa di Byron in Svizzera, a seguito di un gioco in cui gli invitati avrebbero dovuto elaborare un racconto di paura, durante una notte da incubo ideò il racconto horror gotico del Prometeo Incatenato, ovvero Frankenstein, fra i più intensi e appassionati romanzi di paura mai scritti. Mentre il segretario di Byron, John William Polidori, concepì l’archetipo del mostro notturno che ancora oggi attira grazie al suo oscuro fascino: Il vampiro, o, per meglio dire, l’antenato di Dracula di Bram Stoker.
Morire e rinascere
Ecco, questi geni ruotano intorno a lui, a Lord Byron: in questo intreccio di poesie, idee, vita malata ma tanto adorata, Byron incarna il romantico che si ribella al gioco inquieto della vita, sempre in combutta con allla morte – il suo vitalismo non lo abbandonerà mai, e la sua poesia ne raccoglie la sensualità, la forza, l’intelligenza arguta. Visse oltre i suoi amici, Keats e Shelley, ma, come afferma Roberto Mussapi, curatore di questa bellissima antologia poetica edita da Feltrinelli, “essendo un agonista, e un ragazzo, volle imitare i suoi amici – il vulcanico Shelley e il febbricitante Keats – e morire.”
Lanciò un guanto di sfida alla morte, voleva morire in battaglia. E purtroppo, come già detto, la morte accolse la provocazione, e con un umorismo nero che per paradosso forse soltanto Byron poteva capire, sorprese il poeta con la malattia che lo vinse prima della battaglia fra greci indipendentisti e turchi. Egli era già un mito e tale sarebbe rimasto, aleggiando sopra i sogni dei poeti di oggi come un fantasma benevolo.
Passa radiosa, come la notte tersa
dai cieli stellati;
il meglio del buio e del fulgore
si incontra nei suoi occhi
addolciti a quella tenera luce
che il cielo nega allo sforzo del giorno.
Un’ombra in più, un raggio in meno, avrebbero
in parte guastato la grazia senza nome
che si posa sui capelli neri
o illumina il volto con dolcezza,
dove pensieri limpidi
svelano pura e preziosa dimora.
Su quella guancia, sopra quella fronte serena
sorrisi e colori parlano di pacifici giorni,
di un intelletto in armonia con tutto,
di un cuore che ama innocente.
Shelley, Byron, Keats – I ragazzi che amavano il vento
a cura di Roberto Mussapi
Ed. Feltrinelli
pagg.120, € 8