Poesie di vetri sulla sabbia riguardo ruote che non girano, di GIACOMO GALEOTTI: la graffiante dolcezza di un dolore invisibile

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Poesie di vetri sulla sabbia riguardo ruote che non girano, di GIACOMO GALEOTTI: la graffiante dolcezza di un dolore invisibile

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” Resuscitami/perché io mi avveleno dentro”

Urbino, Festa del Duca d’estate. Sotto i portici di Via Garibaldi, passeggio osservando i banchi che vendono libri usati. Cerco tesori dimenticati: poesia invisibile tra mucchi di carta ingiallita, ma ancora così preziosa. Mi fermo. Nascoste in uno scatolone, sillogi di poeti urbinati. Stavolta, però, non ne riconosco i nomi. Ottimo, mi dico. Ad attirarmi un titolo fucsia che spicca su un nero profondo. Un libriccino esile ma potente, sono curiosa. Un titolo lungo come un treno e misterioso come un quadro astratto: Poesie di vetri sulla sabbia riguardo ruote che non girano. Lo porto con me, iniziando a leggere quasi subito. In apertura si cita Une saison à l’enfer, di Arthur Rimbaud. Sarà un caso, sarà destino. Voglio capire di più.

La penna che scrive è giovane, inquieta e ferita. Tuttavia, il verso è consapevole e sincero. Il poeta non si scherma con facili astuzie, scegliendo invece di mostrare il fianco, di disturbare l’orecchio ipocrita e benpensante urlando la propria natura martoriata. Pur pagando il pegno di sofferenza che ciò comporta, è giunto il momento, per la voce poetica che ci accompagna, di smettere di soccombere al regime dell’infastidita invisibilità.

Le poesie di Giacomo Galeotti sono insieme un j’accuse e una piaga che non si rimargina. Visioni evocative, cruda realtà e amara ironia guidano il lettore in un’esperienza di vita complessa e ricca di contrasti, eccessi, incomunicabilità e rimpianto. Il ritmo si sposa col respiro rotto, con l’anima che brucia. Forse beat, forse no. Di certo, è un poetare che cerca empatia ma mai pietà, che offre rifugio ma mai scorciatoie.

 

“Promettimi la dannazione eterna”, “Quest’attimo è l’eternità”, “Follipensieri di un anticristo orfano reicida”: ora capisco. Ora so dove si trova, qui, il mio Rimbaud. Giacomo Galeotti è orfano di una legittimità che non vuole, ma che è la materia del suo soffrire. È pronto a compiere il suo personale “cosciente sregolamento di tutti i sensi”, ma non ha paura di mostrare che ha paura. Come il grande Arthur ci insegna, toccare il fondo non lascia illeso nessuno. Qui, però, la rinnovata consapevolezza si tinge di una neonata speranza, offerta in dono come delicato scrigno di una possibile rinascita.

Essere sé stessi è la più alta forma di libertà, specie se per farlo ti scontri con un mondo che non ti capisce, non ti vuole o non è pronto ad accoglierti. Una tale libertà richiede sacrificio, coraggio e una spregiudicatezza che Galeotti ritrova nell’arte, nel vivo fuoco della poesia. Trattenere un simile verso è cosa ostica ma la penna si muove bene e, sebbene spesso si lasci andare, non inciampa.

La notevole forza espressiva, la cifra di disgustato e sofferto dissenso e l’incerta, ma pure volutamente dissacrante, voce poetica di Giacomo Galeotti merita a mio avviso di essere ascoltata. Chissà, forse Arthur Rimbaud l’avrebbe fatto. Nel frattempo, perché non provarci noi?

 

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